Dice che in molte culture del mondo è costume per gli uomini tenersi l’unghia del mignolo lunga.
Dice che ha a che fare con questioni di status, di autodeterminazione di sé: l’unghia lunga ostenta pubblicamente la propria appartenenza a classi sociali che non si guadagnano da vivere con l’attività manuale.
Ho visto le mie prime unghie del sarto (sì, si chiamano proprio così) a Pechino, nel 2013, in un’epoca di fitto inurbamento e mutamento sociale, in cui gli uomini e le donne correvano nella grande città a caccia di un sogno che le immense aree rurali del paese, dove vivono quasi 900 milioni di persone, non erano più in grado di garantire. Quell’unghia lunga che sfoggiavano in metropolitana e nei bar all’aperto la sera, (dove scendevano in pigiama noncuranti del mondo) era il loro simbolo, il loro modo di affrancarsi da un passato che li aveva visti fare la fame.
Senza volare così lontano, restando in Italia, il signor Paleari, affittuario del Fu Mattia Pascal durante il suo soggiorno romano, nel descrivere i suoi bizzarri credo religiosi non dimentica di citare, fra le parti del corpo più care alla sua buffa teosofia, le tanto preziose unghie: «Nel mio stesso corpo, c’è l’unghia, il dente, il pelo, e c’è, per bacco, il finissimo tessuto oculare. Ora, sissignore, chi vi dice di no? quella che chiamiamo anima sarà materia anch’essa; ma vorrete ammettermi che non sarà materia come l’unghia, come il dente, come il pelo: sarà materia come l’etere, o che so io.»
Trionfo di citazioni letterarie così, d’emblée, sull’unghia. Ammettetelo: niente male, vero?

Con i suoi primi guadagni il pittore Antonio Ligabue si comprò una moto, una Guzzi GTV 500 rossa per essere precisi. Siamo alla fine degli anni ’50, forse primi ’60 e ancora oggi, girando per Gualtieri e dintorni, in quella stessa bassa reggiana dove sfrecciava Don Camillo in bicicletta, può capitare di trovare un anziano al bar che se lo ricorda Tony il mat che vaga a bordo della sua Guzzi con un quadro legato alla schiena in cerca di un acquirente.
La vita di Antonio Ligabue, all’anagrafe Laccabue, era stata, sin lì, un disastro. La nascita in Svizzera, la povertà estrema, l’esilio nelle terre del padre putativo, l’incapacità di farsi comprendere (lui che parlava tedesco) se non con la lingua del colore, i ricoveri nella clinica psichiatrica.
Poi la scoperta casuale del suo genio, le mostre, il mercato che sale, i primi soldini che entrano. E le Moto Guzzi, dieci, una dopo l’altra, tutte uguali. Solo per dimostrare al mondo che c’era anche lui. Per legittimarsi. Per essere qualcosa. O qualcuno.

Mucca con vitello disegnata dal pittore sul retro di una tovaglietta da osteria. Con questo disegno Ligabue, non avendo denaro con sé, ripagò l’oste della cena
Sono più di mille le opere attribuite ad Antonio Ligabue.
Fra i suoi soggetti preferiti gli animali, sia quelli tipici della sua terra sia quelli esotici, in un continuo rimbalzo tra la realtà e il sogno, tra l’osservazione e il ricordo. Osservazione e memoria sono nella sua poetica due forme di naturalismo diverso una visiva l’altra psichica, capaci entrambe di evocare luoghi e stati d’animo lontani nello spazio ma simili e vicini nell’animo. Gli animali di Ligabue non sono mai statici ma dinamici, colti nel momento dell’assalto, subito prima che uno prevarichi sull’altro, che ci siano un vincitore e uno sconfitto perché non è di vita e di morte che si parla ma di sopravvivenza, la feroce lotta quotidiana che ognuno deve compiere con gli altri e con sé impressa in colori bollenti, incantevoli, sanguigni.


E se c’è un animale che ha combattuto per sopravvivere quello è Antonio Ligabue.
Eppure è proprio lui, Antonio Ligabue, il soggetto più dipinto: 150 autoritratti.
La denutrizione di cui ha sofferto da bambino che l’ha reso gobbo, rachitico esposta senza paura. Un gozzo orrendo che gli deturpa la gola, in alcune tele coperto da sciarpe, in altre si mostra fieramente. Sulle tempie, anzi sulla tempia visto che tutti gli autoritratti mostrano lo stesso punto di vista del visto dell’artista si notano con frequenza i segni neri delle piastre elettriche compagne dei suoi soggiorni in clinica.

150 ritratti di un uomo che i nostri canoni definirebbero brutto.
150 opere in cui un quest’uomo ha sentito il bisogno di mostrarsi al mondo senza veli, senza filtri diremmo oggi, senza paura.
150 pagine di un diario visivo che scava nella sua psiche, nei suoi disagi, apparentemente tutti uguali ma in realtà tutti capitoli di un’odissea umana complessa che cerca, nella sua posa, di dialogare con l’esterno con diffidenza e allo stesso tempo chiedendo aiuto, con un’inflessibile, feroce, dignità.
150 graffi che questo randagio della cultura ha voluto lasciare al mondo.
La sua affilatissima unghia del sarto.
(La mostra che ho camminato questo weekend si trova a Palazzo Pallavicini, a Bologna. La trovate fino al 16 marzo 2025, dal martedì alla domenica, dalle 10 alle 20)
Per info https://www.palazzopallavicini.com/events/mostra-antonio-ligabue/





